Il regime Impatriati e il nesso di casualità tra il trasferimento della residenza e l’attività lavorativa

La sentenza n. 2587/2023 della Corte di Giustizia Tributaria di Milano, stabilisce che il collegamento diretto tra l’attività lavorativa e il trasferimento della residenza in Italia, per disporre del regime impatriati non è necessario, in quanto non richiesti dalla norma ed è solo previsto dalla Prassi dell’Agenzia delle Entrate.

Uno dei problemi più sentiti da coloro che acquisiscono la residenza in Italia, soprattutto dopo il 3 luglio 2023 e prima del 31 dicembre 2023, ai fini dell’applicazione del regime impatriati, è il preteso (da parte dell’Agenzia delle Entrate) nesso di causalità tra il trasferimento della residenza e l’attività lavorativa.

Infatti l’Agenzia delle Entrate sia nella CM 33/2020, paragrafo 1, che nella la CM 17/2017 (parte II, paragrafo 3.1) nonché in risposte ad Interpelli pubblici (Risposta 59/2020) ha sostenuto che possono fruire degli incentivi, di cui trattasi, anche coloro che trasferiscono la residenza in Italia prima di iniziare lo svolgimento di detta attività, a condizione che sia ravvisabile un collegamento tra i due eventi.

Tale collegamento, può essere riconosciuto, ad esempio, ad un contribuente che, trasferitosi in Italia nel mese di maggio 2023, in seguito ad un pre-contratto stipulato nell’aprile del 2023 sia stato assunto nel mese di settembre 2023.

Mentre, non può prefigurarsi un nesso causale tra i due eventi laddove il rientro in Italia sia genericamente preordinato alla ricerca di un impiego, oppure nel caso in cui non sia preceduto da accordi puntualmente formalizzati o dalla sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro.

Il nesso di causalità tra il trasferimento della residenza e l’attività lavorativa in Italia è previsto solo dai documenti di Prassi dell’Agenzia delle Entrate e non dalla stessa norma di cui all’articolo 16 Dlgs 147/2015.

Lavoratori Impatriati: applicazione

Questo è il senso della sentenza n. 2587 pubblicata il 10 luglio 2023della Corte di Giustizia Tributaria di 1° grado di Milano, che ha provveduto a decidere, relativamente al regime impatriati, del ricorso di un contribuente che, rientrata dall’estero in Italia nel 2019 aveva iniziato a lavorare presso la filiale italiana della multinazionale presso la quale aveva precedentemente lavorato in Brasile, nel febbraio 2020, vedendosi rifiutare il rimborso delle imposte pagate sui redditi di lavoro dipendente prodotti nel territorio dello Stato italiano nel 2020.

La sentenza della CGT di Milano n. 2587 del 10/7/2023, stabilisce testualmente che: “La norma non prescrive, invece, alcun periodo temporale minimo che debba intercorrere tra la data di trasferimento in Italia e l’inizio dell’attività lavorativa; neppure richiede una disamina dei motivi soggettivi che avrebbero indotto il contribuente a trasferirsi in Italia.”.

I giudici, quindi hanno evidenziato nella stessa decisione che il lasso temporale dei 6 mesi trascorsi tra l’iscrizione nelle anagrafe della popolazione residente e l’inizio dell’attività lavorativa è stato reputato compatibile con le esigenze connesse al trasferimento della contribuente e della famiglia in Italia; pertanto si tratterebbe di una mera circostanza fattuale, che nulla ha a che vedere con i requisiti richiesti per l’accesso al regime, ritenuti sussistenti nel caso di specie.

La pronuncia rientra nell’ambito di un filone di sentenze favorevoli al contribuente nell’ambito del regime impatriati, diretto a tutela i diritti dei cittadini rispetto ad interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate definite “ultra legem”.

Infatti, è possibile sostenere che la posizione restrittiva dell’Amministrazione Finanziaria, non solo non trova alcun riferimento normativo e contrasta con la ratio della legge del regime impatriati, ma evoca anche contraddizione e assoluta aleatorietà, inducendo i contribuenti in errore, creando confusione e costi ingiustificati, visto l’importanza dell’agevolazione ai fini della riduzione delle imposte.

 

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